Federica Tourn
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Lunedì 19 Marzo 2012
Una bella ragazza di 27 anni attraversa la strada,  lo sguardo dritto davanti a sé, la camminata sicura di chi è  cresciuto libero e si fida delle proprie capacità. Nella borsa ha i  colloqui con alcuni militanti curdi del Pkk, l’ultimo progetto a cui sta  lavorando. La polizia la ferma, requisisce le registrazioni, vuole i  nomi delle persone intervistate. Lei si difende, invoca il segreto  professionale: «Non posso, sono una sociologa». Una spiegazione  insufficiente per la giustizia turca: seguono otto giorni di tortura,  un’accusa di terrorismo e due anni e mezzo di carcere.
È il 1998. Pinar Selek,  femminista, antimilitarista, sociologa, è già nota per il suo impegno a  favore di chi vive ai margini. Fare la sociologa per lei non vuol dire  studiare gli altri come un entomologo, ma condividere vita e problemi  quotidiani. E così fonda l’Atelier degli artisti di strada, un centro di  reinserimento per ragazzi senza casa, transessuali e prostitute: «Mi  sentivo – dirà – come un medico che non può fare a meno di toccare le  ferite dei suoi pazienti». Istanbul è una città come nessun’altra e più  di altre si fa beffe dei luoghi comuni, forse perché abituata a stare in  equilibrio fra Europa e Asia. Una città in cui dalle moschee sale alto  l’appello alla preghiera cinque volte al giorno, ma dove le donne hanno  accorciato gonne e capelli per dare vanto alla nuova Repubblica  di Atatürk. Fino a poco tempo fa non potevano nemmeno entrare in un  luogo pubblico con il capo coperto dal velo. Metropoli di militari  cresciuti a köfte e senso dell’onore, che non si fanno certo  scrupoli a intervenire nelle faccende dello stato, Istanbul è una città  di traffici oscuri, di bambine vendute al mercato del sesso ma anche di  rivendicazioni femministe e manifestazioni per l’orgoglio Lgbt (gay e  transgender).
Pinar racconta che «la società turca è piena di  contraddizioni,le spinte al cambiamentosono forti e il potere reagisce  con durezza. In particolare le donne si ribellano: e più diventano  consapevoli, più cresce la repressione». Incontro la Selek a Berlino, in  un caffè a Kreuzberg, un tempo fatiscente periferia d’occidente a  ridosso del Muro, oggi quartiere multietnico à la page. Veniamo spesso  interrotte da persone che la riconoscono: sono subito abbracci, sorrisi,  scambi in turco. Lei c’è per tutti e intanto sorseggia un tè verde  bollente, che a me fa l’effetto stordente di dieci sigarette.
La solidarietà che la circonda è palpabile.  In Germania è appena uscito il suo primo romanzo e hanno tradotto il  suo saggio sulla virilità negli ambienti del servizio militare: Sürüne Sürüne Erkeklik, che da noi suonerebbe Vita da cani:  mascolinità. In Turchia ha avuto enorme risonanza, perché per la prima  volta qualcuno – una donna – osava entrare nel cuore del sistema  machista per eccellenza e mostrarne la fragilità. «Non è stato proibito  solo perché l’ha pubblicato una importante casa editrice, la Iletişim,  ed è andato a ruba», confida Pinar con l’aria di chi l’ha fatta  grossa. I suoi colloqui con uomini di età, religione, cultura e  orientamento sessuale diversi portano alla conclusione che i maschi  vivono schiacciati da una mentalità di dominio che snatura i rapporti e  genera violenza: non è un caso che ogni giorno, in Turchia, ci sia una  donna uccisa da un uomo. «Da noi si crede che la virilità dipenda dalla  difesa della patria, della famiglia e dal controllo della donna. È lo  stato a inculcare il senso dell’onore nei ragazzi durante il servizio  militare, a prezzo di terribili umiliazioni: i più forti costringono i  più deboli a “fare le donne”, a pulire, cucinare, sottomettersi.  Così costruiscono un meccanismo di violenza che si ritorcerà contro  le mogli e le figlie, quando i soldati, diventati “uomini”, torneranno a  casa.
È  una guerra», chiosa lei. Non siamo stupite, vero?  Parliamo di un paese musulmano che fatica a entrare in Europa, ma  potremmo dire lo stesso della civilissima Italia cattolica. «Questi  uomini non sono forti come pensiamo, sentono la paura e un grande senso  di inadeguatezza. Sin dall’infanzia sono caricati di aspettative non  naturali». La solitudine che ne deriva è terribile: «Non sanno come  uscirne perché, a differenza delle donne, gli uomini tra loro non  parlano, è come se vivessero circondati da un muro». Uomini e donne  recitano ruoli secolari in cui non si riconoscono e questa  finzione uccide l’amore, impedendo relazioni autentiche. «Smontare  questa costruzione del potere maschile vuol dire liberare le donne ma  anche restituire gli uomini a loro stessi».
La montagna  è granitica ma qualche sassolino inizia a smuoversi, anche grazie al  libro della Selek. In Turchia, dopo la tragica uccisione di Pippa Bacca -  l’artista italiana che girava il mondo in autostop vestita da sposa,  per testimoniare la fiducia nel prossimo - si è formato un gruppo di  protesta, che denuncia il legame fra violenza e costruzione della  maschilità. I membri, gay e etero, recitano lo slogan «Non siamo uomini»  e rifiutano di fare il servizio militare, in un paese in  cui l’obiezione è proibita. Arrivano persino a farsi arrestare. Come è  successo alla Selek. Le chiedo come è riuscita a non fare i nomi dei  militantidel Pkk quella volta, nonostante le torture. Risponde con un  sorriso schivo: «Oh, il dolore era terribile. Ero certa che avrei  ceduto; soltanto mi dicevo: ancora cinque minuti e poi parli, ancora  altri cinque minuti… e non ho parlato». Il suo nome qualcuno invece l’ha  fatto: un ragazzo curdo l’ha accusata (per poi ritrattare) di aver  messo una bomba al Mercato delle spezie di Istanbul. «Guardavo il  telegiornale in carcere quando all’improvviso appare sullo schermo la  mia foto, associata a quelle del mercato devastato: uno choc, ho capito  di essere stata incastrata». Poco tempo dopo si scopre che è esplosa una  bombola del gas: la Selek viene prosciolta. Eppure ha inizio un  processo kafkiano, che la perseguita ancora, dopo tredici anni, e la  costringe all’esilio. Nonostante tre assoluzioni dall’accusa di  terrorismo, il procuratore si attacca a vizi procedurali che fanno  rimbalzare le udienze: la prossima sarà il 7 marzo.
Ancora una  volta aspetta la sentenza nel suo appartamento di Strasburgo, dove si è  trasferita dopo Berlino, nomade forzata dell’abuso di potere. Sì,  perché in fondo tutto torna: «Perseguitandomi, cercano di  intimidirmi», dice Pinar, che a quarant’anni ha la stessa determinazione  di sempre, gli stessi occhi pieni di calore. È sempre la stessa donna,  che appena uscita dal carcere ha raddoppiato il suo impegno fondando  Amargi, associazione, rivista e poi prima libreria femminista in  Turchia. In dieci anni ha visto moltiplicarsi le adesioni e ha aperto  nuove sedi a Smirne e Ankara. Perché Pinar è così: vuoi costringerla a  parlare e lei non si piega, vuoi chiuderle la bocca e lei invece apre un  caffè-libreria per discutere con tutti. È soltanto un caso che  Amargi, antica parola sumera, significhi al tempo stesso “libertà” e  “ritorno alla madre”? «Probabilmente - ride lei - già allora si aveva la  consapevolezza che per essere libere bisogna stare lontano dalla legge  dei padri».
Le domando all’improvviso se immaginava che la sua  vita andasse così e per un attimo la sua naturale esuberanza cede  alla commozione: «No, ma anche se ho passato momenti molto duri, non mi  sono mai sentita infelice». Ovunque vada c’è gente pronta ad  accoglierla, dal premio nobel Pamuk ai bambini di strada che sono  accorsi in massa per testimoniare in suo favore al processo. Non si  lamenta, non è da lei, ma le si legge negli occhi la nostalgia per  Istanbul, città cangiante, traditrice e materna insieme. «A Berlino, al  Jüdisches Museum, c’è un monumento all’esilio con il pavimento inclinato  che ti dà l’impressione di perdere l’equilibrio: è così che mi sento  lontana da casa», confessa. Le chiedo cosa farà quando riuscirà a  tornare. Un momento di silenzio, cerca qualcosa nella memoria, poi:  «Essere là mi basterebbe, senza l’ansia di dover ripartire. Sedermi e  guardare il mare».
 Istanbul alle istanbulesi!
Dal taccuino di Pinar Selek, 5 indirizzi per scoprire il vero volto (combattivo) della città
Amargi Kadın Dernegi - Istiklal  Caddesi 73, tel. +90 212 2510154. È l’associazione femminista che Pinar  ha fondato nel 2001 insieme ad altre donne. Questa nel cuore del vivace  quartiere Beyog˘ lu è la sede operativa, ma anche libreria, caffè e  luogo di incontri.
Kadın Eserleri Kütüphanesi - Kadir  Has Caddesi 8. «Senza documenti non si fa la storia!»: con questo motto  apre nel 1990 la Biblioteca delle donne, che oggi raccoglie oltre  diecimila volumi e 230 periodici da consultare, sulle questioni di  genere.
Lambda Istanbul - Istiklal Caddesi, Tel  Sokak 2, tel. +90 212 2457068. L’associazione di solidarietà a lesbiche,  gay, bisessuali e transgender è un indirizzo imprescindibile per vedere  quanto creativa e agguerrita sia la ricerca sul genere e la sessualità  in Turchia.
Filmmor Kadın Kooperatifi - Istiklal  Caddesi, Bekar Sokak 7/6, tel. +90 212 2515994. È una cooperativa nata  nel 2003 per aiutare le donne che si muovono nel mondo del cinema e dei  media, producendo lavori di donne sulle donne e vigilando sulla  diffusione di un’immagine femminile non sessista e libera da stereotipi.  Sul tema si tiene in città il Filmmor Women’s Film Festival, dal 9 al  19 marzo.
Mor Çatı - Katip Mustafa Çelebi Mah, Anadolu Sok 23. Il consultorio: La Casa delle Donne  è nato per sostenere le donne in difficoltà, rafforzare l’autostima e  aiutarle a conquistare l’indipendenza. Si ispira alla prima  mobilitazione collettiva del 1987.
 Federica Tourn
http://www.marieclaire.it/People/Intervista-alla-femminista-turca-antimilitatista-e-sociologa-Pinar-Selek